L’Agnellino che contava le Lune

Teresa Giulietti, nota per avere legato il suo nome alla Bellezza Etica, con questo brano scritto di suo pugno e cuore, vuole aprire gli occhi per far cambiare idea a chi, per piu’ motivi rimane legato all’arcaica usanza di sacrificare un agnello in tavola per Pasqua. Tradizione, che vorremmo veder finire, per non strappare piu’ “cuccioli alla mamma”…
Ecco i racconto;

“Cosa vuoi che ti dica di me? Hm, vediamo… sono Tommaso, ho due mesi di vita, mi piace il latte della mamma. Ne vado ghiotto.  E tu, chi sei?”.

“Io sono Riccardo, ho 9 anni di vita. Anche a me piace il latte col cacao in polvere dentro che lo devi mescolare fino a che i grumi si sono sciolti tutti”.

“Il cacao in polvere? Ma io non lo conosco”.

“E’ una cosa buona che ti fa leccare i baffi” e si era passato due volte la lingua sulle labbra.

“Ma tu non hai i baffi”.  Aveva riso Tommaso e poi tirato fuori la punta della sua linguetta rosa.

“Ma, daiii… è un modo di dire… voi non avete modi di dire?”.

Tommaso si era guardato attorno, smarrito “Voi chi?”.

“Voi agnelli, intendo. La vostra specie, non ha modi di dire?”.

Prima di rispondere, Tommaso aveva socchiuso gli occhi, respirato l’aria tutt’attorno. Era il suo modo di riflettere, quello.

“Noi non usiamo le parole per raccontare la vita, noi la viviamo e basta, se ce lo permettono, quelli”.

“Quelli? E chi sarebbero quelli?”.

“Gli uomini che pensano che noi siamo venuti al mondo per essere mangiati”.

“Mangiatiiii? Ma i lupi mangiano gli agnelli, non gli uomini!”.

Si era quasi offeso Riccardo, d’accordo che gli uomini potevano essere cattivi, d’accordo che facevano le guerre e si uccidevano per avere tanti soldi. Ma… fino a quel punto.

“Sì, mangiati” aveva risposto Tommaso, mettendosi a sedere sulle zampe posteriori.

“Vuoi dire che… gli agnelli si mangiano? Cioè, se io ora vado su Internet e poi su Wikipedia e digito la parola ‘agnello’ viene fuori che gli uomini vi mangiano?”.

Suo padre faceva sempre così quando aveva un dubbio. S’infilava gli occhiali, accendeva il computer, si collegava a Internet e poi a quell’inesauribile fonte di sapere che era Wikipedia. Anche lui lo avrebbe fatto, una volta arrivato a casa, e poi sarebbe tornato dal suo piccolo amico tutto bianco a consegnarli la verità.

“Inter… cosaaa? Wichi… ma cosa stai dicendo, Riccardo?”.

Ed ancora aveva sorriso. In verità, non era proprio un sorriso, il suo. Non alzava gli angoli della bocca, ma i suoi grandi occhi a mandorla si illuminavano di piccole stelline, le orecchie si impuntavano come antenne, ed era come se il suo muso arruffato di pelo candido fosse stato colpito da un raggio di sole.

Era bello il suo muso, sembrava quello degli orsacchiotti che gli avevano regalato fino a qualche anno prima, ma con i quali lui non aveva mai giocato. Non era una bambina, lui, ma quando lo avrebbero capito sua madre e soprattutto sua zia che seguitava a regalargli peluche che poi finivano ammassati sul divano dello studio e ogni tanto messi in lavatrice per tirare via la polvere. Lui preferiva, nemmeno a dirlo, le macchinine telecomandate e i lego, ma quella era tutta un’altra faccenda. Tommaso non era un peluche, Tommaso era fatto di carne e di respiri. Aveva un cuore, lui lo sapeva, e forse non era così diverso dal suo. Un cuore è un cuore, si era detto.

“Gli esseri viventi per poter vivere devono avere un cuore” aveva sussurrato.

“Un cuore? Certo che lo devono avere, ma non sempre funziona” aveva risposto Tommaso, mettendoglisi più vicino.
Come era morbido il suo pelo, aveva pensato in quel preciso istante Riccardo. Come è liscia la sua pelle, si era detto col pensiero Tommaso.

“Vuoi dire che a volte il cuore si ammala?”.

“Forse si ammala o forse nasce già ammalato, io non lo so”. E, all’improvviso, il raggio di sole era scomparso dal suo bel musetto.

“Oh, non volevo farti diventare triste, possiamo parlare di altro, se vuoi. Del latte col cacao in polvere. Magari un giorno vieni a casa mia e te lo faccio assaggiare. Ti do la mia tazza con le papere, vu-ooi?”.

“La tazza con le papere? Davvero le tue papere stanno in una tazza?” aveva risposto Tommaso, sempre più confuso.

“Ma non papere vere che fanno qua-qua, sono disegnate, capisci. Disegnate dagli uomini sulle tazze della colazione”.

“E perché lo fanno?”.

“Perché mettono le papere? Beh, in verità ci disegnano anche gli scoiattoli e le mucche e gli orsacchiotti e i coniglietti…”.

“Perché se poi li uccidono per mangiarseli?”.

“Perché… èèèè… perché sono belli, gli animali”.
Lo aveva guardato, abbassando un po’ la testa, come quando sua madre lo rimproverava per non aver fatto i compiti o aver risposto male alla nonna, “anche tu sei bello. A volte ci mettono pure gli agnellini… sulle tazze”.

Gli agnellini non andavano per la maggiore, a dire il vero. A casa sua li vedeva soltanto per Pasqua, disegnati sulla carta che avvolgeva le uova di cioccolato, oppure sulla tovaglia che la mamma stendeva sulla tavola il giorno in cui si festeggiava la resurrezione di Cristo, ma lui non aveva mai capito il perché.

“A cosa stai pensando?” gli aveva chiesto Tommaso.

“Alla Pasqua. Non so nemmeno io perché”.

“Ohi ohi”.

“Non ti senti bene?”.

“La Pasqua… non è lontana, vero?”.

Riccardo aveva fatto un paio di conti aiutandosi con le piccola dita paffute “credo manchi un mese, su per giù”.

“Un mese quante lune sono?”.

“Lune? Io… non saprei”.

Tommaso aveva cominciato a battere sul selciato la piccola zampetta come se stesse provando un passo di danza, e poi aveva sospirato “ohi-ohi, tra poco ci siamo. Credo che dovrò scappare”.

“Scappare? Ma perché dovresti scappare?”.

“Per non finire nei vostri piatti, ecco perché”.

“Nei nostri piatti, noi non… sulle tazze… le papere…”.

“Davvero non lo sai?” gli aveva domandato Tommaso, strofinando il suo piccolo musetto sulla spalla del suo giovane amico.

“Io, davvero, non lo so. Ma se vuoi ti nascondo sotto il mio letto”.

“I mie fratelli sono stati uccisi la scorsa Pasqua, me lo ha raccontato la mamma. Soltanto lei è sopravissuta perché farà nascere altri agnellini che faranno la stessa fine di tutti i miei fratelli”.

Internet. Suo padre. Wikipedia. Doveva scappare a casa, subito. Consultare l’immensa enciclopedia che sapeva ogni cosa del mondo e non raccontava mai bugie. Tommaso si stava sbagliando. Nessun uomo, né suo padre, né suo nonno, né il suo vicino che amava tanto i fiori e lo chiamava dalla finestra alla nascita di un nuovo pomodoro, di una carota, avrebbero permesso che una simile cosa accadesse. Figuriamoci, poi, se si sarebbero mangiati un Tommaso bianco e bellissimo con quegli occhi che celavano la…

Sua madre l’avrebbe chiamata poesia. Sua nonna, grazia. E lui, possibile che non riuscisse a trovare nemmeno una parola per definire quello che gli occhi del suo amico agnellino riuscivano a trasmettergli?

Un’immagine, sì, ma non una parola. Più immagini: la mamma che se lo stringe al petto dopo che lui ha pianto. O il papà che gli propone di fare un bel giro in bicicletta, fino alla gelateria dei mille gusti. O la nonna che gli racconta di quando ai tempi di guerra preparava la torta di patate per i giovani partigiani coi geloni ai piedi.

“Non piangere” gli aveva detto Tommaso, posando il musetto sul petto agitato del suo giovane amico. Sì, perché Riccardo, all’improvviso aveva capito. Ed aveva provato la stessa sensazione sgradevole di quando, qualche anno prima, all’asilo, lui si era fatto la cacca addosso e i suoi compagni lo avevano deriso e chiamato ‘cagasotto’.

“Io-mi-vergogno-tanto” aveva balbettato, nascondendo il viso dietro al braccio. “Io-non-sono-come-loro-e-non-ti-mangio!”.

“Oh, io lo so, amico mio, è per questo che oggi sono qui. Avrei potuto raccontare questa storia a mille altre persone ma non mi avrebbero ascoltato. Molti di loro credono che gli animali siano cose, capisci. Oggetti fabbricati per le loro esigenze. Ed è strano che usino persino la parola di Dio per autorizzare questo genocidio”.

Come parlava difficile ora, Tommaso. La parola di Dio? Genocidio? Faticava un po’ a seguirlo ma sapeva una cosa, la sapeva benissimo che più benissimo di così non l’avrebbe potuta sapere, e cioè che lui non solo non avrebbe mai mangiato un Tommaso o una papera come quella sulle tazze della colazione, o un vitellino, o un qualsiasi animale dotato di un cuore che batte e di un…

Ecco, l’aveva trovata quella parola: Vita. Vita. Vita. Vitaaaaa.

Possibile non ci fosse arrivato prima? Tommaso aveva la vita dentro. Come tutti gli altri animali. Come i cani che sua zia aveva salvato da un canile lager o quello che proveniva da Green Hill e che sarebbe finito tra le mani dei vivisettori se dei ragazzi non li avessero liberati. Come la mucca lilla della pubblicità del cioccolato o i cavallini con la piuma in testa che aveva visto al circo e le scimmie in salopette con gli orecchini, gli elefanti africani che gli uomini facevano ballare a tempo di walzer. E quella vita non poteva essere derisa, sfregiata, uccisa o mangiata.

Ecco, da quel giorno, lui avrebbe fatto il possibile perché la Vita, qualsiasi forma essa avesse assunto, fosse rispettata. E non avrebbe mai più chiesto aiuto al Signore, o piagnucolato, se non prima di aver aiutato chi aveva bisogno di lui.

 (Teresa Giulietti)

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